venerdì 2 maggio 2008

le opere e i giorni

Mi hanno chiamato Tempesta. Non all'anagrafe, che sarebbe stato troppo e l'arciprete avrebbe fatto come Don Camillo col figlio di Peppone (che voleva chiamare Lenin) e avrebbe preteso di metterci vicino almeno tre nomi di santi, per compensazione. Mi hanno messo solo un secondo nome, Vittorio, segnandomi come uno che doveva cambiare il mondo, perché Pietro nella concezione cattolica è il primo e così un bambino cresce con addosso le fami ataviche delle generazioni precedenti e il peso delle loro attese deluse. Perché ognuno di noi dovrebbe avere un figlio migliore del padre e il mio (che ha solo due anni e tre mesi, come non manca di dire a tutti) non faticherà ad esserlo. Quando ero sindaco e arrivavo in municipio, avevo la pretesa che le opere si conciliassero con i giorni e non con i secoli e così mi hanno dato (di nascosto) quel titolo di uno che ti scombussola la giornata. L'ho fatto per tre legislature filate, il sindaco, ma a distanza di anni ci si accorge che il mondo sembra impermeabile ad ogni... tempesta, Perlomeno a una tempesta isolata. Ho cominciato con la cannuccia e il pennino, la boccetta d'inchiostro incorporata nei banchi neri di legno segnato da generazioni di coltellini di ragazzi che (anche loro) si illudevano di lasciare un segno del loro passaggio a quelli che seguivano, da lì passavano tutti, imparando l'abc della vita, prima ancora che del sillabario. Ho visto inventare la penna biro, che il mio professore di latino ne aveva due, una blu e una rossa, le si riconosceva dal cappuccio, bellissime. Ho risparmiato per mesi per comprarmi una penna stilografica pelikan, verde, ce l'ho ancora ma lo stantuffo non funziona più. Mio zio mi teneva su fino a notte a farmi imparare sulla macchina da scrivere e sui tasti del pianoforte, dove rifiutavo (già allora) la logica degli accordi che sono compromessi mascherati. Il computer l'ho preso al volo e quindi, quando mi hanno detto, dai, perché non fai anche tu il blog, va bene, dico. E allora cominciamo...

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